Santuario Maria SS. delle Grazie
Frati cappuccini - Cerreto Sannita - BN
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Storia

SANTUARIO
STORIA DEL CONVENTO DEI CAPPUCCINI
E SANTUARIO MARIA SS. DELLE GRAZIE
IN CERRETO SANNITA (BN)

Autore: Rentato Pescitelli

Il presente saggio costituisce un capitolo del II volume CERRETO SACRA (pagine 267-296)
scritto dal Dr. Renato Pescitelli e pubblicato da Tetaprint nel 2011.
Qui vengono omesse le note, che possono essere consultate nel libro
in vendita da Tetaprint in Cerreto Sannita.

IL  CONVENTO E LA CHIESA DI S. MARIA DELLE GRAZIE
Il Convento
Frate Emmanuele da Napoli, al secolo Emmanuele Celentano, nelle sue Memorie storiche scrive  che il territorio sul quale fu edificato il convento e la chiesa della Madonna delle Grazie «fu approvato dagl’amministradori della città [di Cerreto] a cappuccini, facendo la compra di quarti sei ed un terzo (circa 62 are)  di un terreno arbustato con quercie, e coltivato con viti latine, sopra de beni di Claudio Mazzacani, per il finito prezzo di docati 62, ch’era confinante a beni di Vincenzo Varrone, d’Andrea Raitano, via publica […], come dall’istrumento publico rogato da notar Mario Cappella di Cerreto, a 10 d’ottobre 1583».
Molto probabilmente il suolo del Mazzacane non fu sufficiente allo scopo, per cui gli Amministratori di Cerreto ne acquistarono anche altro, di più modeste dimensioni, di proprietà del confinante Andrea Raetano, del valore di ducati 20, somma che nel 1590 non era stata ancora versata al venditore. E’ quanto si rileva dal testamento del detto Raetano, rogato da notar M. Cappella nel 1583, il quale dichiarava «di dover conseguire duc. 20 dall’Università per fare il loco alli padri Cappuccini»: somma che i suoi eredi avrebbero dovuto spendere «in beneficio della Chiesa di detti Cappuccini a paramenti».
Al riguardo si osserva che nel protocollo del notaio Mario Cappella del detto 1583, custodito nell’Archivio di Stato di Benevento, non si riscontra alcun atto inerente l’acquisto di un terreno da parte dell’Università di Cerreto per destinarlo ai Cappuccini : né lo precisa l’atto rogato dallo stesso notaio il 23 settembre del 1587, anno in cui Claudio Mazzacane quietanzò l’Università. In questo strumento leggiamo solo che nei passati anni (annis proxime decursis) fu acquistato il bene, senza citarne, però, la relativa data.
Da quanto sopra detto, pertanto, possiamo affermare che l’Università nel 1583 deliberò di far sorgere nel proprio territorio un convento da destinare ai frati Cappuccini e ne individuò a tale scopo la località; quindi richiese il beneplacito al Provinciale dell’Ordine, nonché l’autorizzazione reale per devolvere l’incasso della gabella della carne a tale scopo.
Questi necessari preliminari probabilmente non avvennero con atto notarile, bensì con un atto redatto dal notaio o, meglio, dal mastrodatti dell’Università il quale ratificò la deliberazione degli Amministratori dell’Università – preceduta o seguita certamente dalla convocazione dell’assemblea dei cittadini - e perciò questa deliberazione venne conservata negli atti amministrativi della detta Università. Solo in questo modo è possibile giustificare la mancanza dell’istrumento nel protocollo del notaio M. Cappella, conciliare la data indicata da fra Emmanuele e, infine, spiegare i primi legati disposti a favore dei cappuccini e cioè quelli di Dianora Vetulo, moglie del magnifico Antonio Magnati, e di Giovanni Verrilli, eseguiti nello stesso 1583. La Vetulo, infatti, nel suo testamento rogato il 3 marzo 1583  lasciò 50 ducati «fabricae conventus cappuccinorum quomodocumque faciende in dicta terra Cerreti ed il Verrilli  pro anima sua reliquit et legavit […] ducati vinti, per la fabrica di detto convento».
La data indicata da fra Emmanuele, pertanto, è da considerare esatta oltretutto perché bisogna tener conto del tempo che richiese la pratica istruita dall’Università per ottenere le relative autorizzazioni e cioè: l’inoltro della domanda al Provinciale della Provincia di Napoli; il nulla osta del Generale dell’Ordine; il nulla osta reale per devolvere la gabella della carne onde affrontare le relative spese.
Espletate le necessarie pratiche, il 20 febbraio del 1584 il magnifico Giovan Battista Lanno, il «vir illustris dominus» Lisio Petronsi, Innocenzo Giamei e Bernardino Mazzacane in sostituzione del nobile Accurzio Mazzacane, Eletti dell’Università, stipularono il contratto per la costruzione del convento con Scipione di Iannolo, di Avellino, e Fabrizio Rimaldo, di Lucera, «fabricatores», con i quali convennero di «far tutta l’opera del monasterio de patri cappuccini de S. Maria della gratia […] et chiesa […] a carlini tre la canna della fabrica» ad eccezione «de li spartimenti delle celle, et schale , che s’abbiano a fare a giornata». Il contratto, quindi, considerava minutamente tutta l’opera di muratura da eseguire, di «cavare la cisterna», di iniziare i lavori il 5 aprile dello stesso 1584 per terminarla entro tre anni e, cioè, nel 1587 anno in cui, come si è detto, dall’Università fu pagato il suolo.
Da quest’ultimo atto pubblico apprendiamo: a) che l’Università fu rappresentata dagli eletti Vincenzo Blundo, Diomede Petronsi e Giovan Battista de Notariis; b) che, scelto il suolo che si estendeva ad oriente di Cerreto, sito nella località  detta «lo corno seu li patrisi», esso fu apprezzato da esperti, eletti in «pleno consilio», e cioè da Antonio Verrillo, dal nobile Pompeo de Notariis e da Orazio Dalio i quali lo valutarono 60 ducati; c) che il Mazzacane ricevette da Giovan Battista Landi, tesoriere (o erario) dell’Università, ducati 10 corrispondenti agli interessi sui 60 ducati non versati al tempo della vendita; d) che i detti ducati 60 furono prelevati dalla gabella della carne, previo regio assenso; e) che il Mazzacane il 23 ottobre 1587 ricevette dal magnifico signore Vincenzo Varrone, «olim» eletto dell’Università e procuratore «fabricae dicti conventum», i rimanenti ducati sessanta.                                 
Ma perché un convento, per di più francescano, a Cerreto, laddove esisteva già quello dei Conventuali sin dalla prima metà del XIII secolo? Probabilmente ciò fu dovuto, scrivevamo in Chiesa Telesina, al fatto che nel «castrum Cerreti» si sentiva il bisogno di respirare una più profonda spiritualità che solo i frati cappuccini avrebbero potuto apportare perché interpretavano in modo più severo la predicazione del grande Frate di Assisi.
Tuttavia, ritornando sulla questione e dopo aver consultato altre fonti non solo archivistiche, oggi siamo propensi a considerare anche un’altra ipotesi e cioè che, essendosi fondato a Napoli sin dal 1530 un convento cappuccino in sant’Eframo  e che a Roma, nel 1535, fu tenuto il Capitolo generale dei Cappuccini con il quale furono costituite otto Province italiane, tra cui Napoli, la predicazione in Campania dei suddetti frati era più che mai conosciuta non solo da buona parte della popolazione ma soprattutto dagli ecclesiastici tra i quali va annoverato Annibale Cotugno, napoletano, il quale, nonostante fosse stato eletto vescovo di Telese il 15 ottobre del 1577, nel 1580 occupava ancora la carica di vicario generale della diocesi di Napoli che gli era stata conferita forse dal cardinale Paolo Burali d’Arezzo, arcivescovo napoletano (1576-1578), e confermata dal successore, Annibale di Capua (1578-1595).
Pertanto il  vescovo Annibale Cotugno, venuto in diocesi, coadiuvato «opera, consilio et industria Rev. Dom. Ill. domitii Vetuli S. Theol. Doct. Et dom . Francisci Angeli Piazza», iniziò ad attuare i decreti Tridentini e perciò, con la sua pastorale, illuminò e vigilò la diocesi per tutti gli otto anni del suo episcopato. In quest’ottica, pertanto, è opinabile pensare che fu egli ad ispirare gli Eletti di Cerreto - «castrum» in cui risiedeva - a rivolgere l’invito ai Cappuccini napoletani affinché avessero fondato nel loro territorio un convento. Egli, infatti, proprio in virtù della carica di vicario napoletano che aveva ricoperto, conosceva molto bene l’apostolato che i detti frati svolgevano in quella diocesi e pertanto, eletto vescovo, li volle anche nella propria. Prima di chiudere la sua giornata terrena, nel settembre del 1584 mons. Cotugno dettò un testamento ed un codicillo a notar Mario Cappella di Cerreto dove tra l’altro destinò alla «fabrica di S. Maria della gratia de Cappuccini di Cerreto» parte della quota legittima dei beni paterni e materni a lui spettanti. Infine pregò ed esortò i frati conventuali ed i cappuccini di Cerreto ad intervenire alle sue «exequie e, per mentre dureranno, habbiano a celebrare messa sopra detto corpo con tutto il clero». Quest’ultima clausola testamentaria è quanto mai importante ai fini del nostro assunto in quanto non solo evidenzia la devozione del vescovo Cotugno per i padri cappuccini, ma soprattutto ci dice che in tale anno i frati risiedevano a Cerreto.
Pertanto bisogna far coincidere la residenza dei Cappuccini a Cerreto con l’inizio dei lavori di costruzione (5 aprile  1584) e non, come si potrebbe pensare, col 1587, anno in cui i detti lavori furono portati a termine. Ad avvalorare tale tesi, infatti, è opportuno considerare la norma che prescriveva ai superiori dell’Ordine, allorché si iniziava la costruzione di un nuovo convento, di inviare sul posto un paio di frati dei quali uno era detto «fabbriciere» ed il cui compito era quello di vigilare e soprintendere ai lavori onde adattarli a quella semplicità architettonica che venne chiamata «piccolo modello». D’altro canto quale significato dare alla clausola del contratto di appalto laddove leggiamo che «li spartimenti delle celle» sarebbero stati retribuiti «a giornata»?
Ma dove dimorarono i frati durante i lavori di costruzione? La risposta non è facile darla e pertanto bisogna supporre che essi, fedeli a Madonna Povertà, adibirono ad abitazione provvisoria qualche chiesina abbandonata del «castrum» o qualche capanna  costruita tra le querce di cui era ricco il terreno di Claudio Mazzacane, ovvero sotto un tetto provvisorio. Non va esclusa, comunque, l’ipotesi che furono ospitati dai confratelli dell’altra famiglia francescana, i Conventuali. Il fatto poi che alla cerimonia della posa della prima pietra fossero intervenuti il «Ministro Provinciale di Napoli, fra Girolamo da Sorbo», ed altre autorità, non è certo perché nessuna fonte o memoria ce ne fornisce la prova.
Portata, quindi, a termine la costruzione, il convento fu oggetto di molte donazioni da parte dei Cerretesi, tra le quali vanno ricordate quella di un «giardino pe’ bisogni insieme e salutevol diporto de’ Frati […] , eseguita dal Signor Muzio Magnati del nostro Duomo […] il quale donò al Monastero tanto di terreno, quanto ancora gli si vede a’ lati circondato da un muro»; quella eseguita dal feudatario, Diomede Carafa, che nel 1610 «donò una polla d’acqua»; quella, singolare, del «Vir illustris Doctor» Pietro de Notariis che donò al «Venerabile Convento de Cappuccini» diversi libri «per usum studii» e, infine, l’elemosina che l’Università era solita elargire ai frati consistente in «tre carlini a settimana», somma che veniva prelevata dagli introiti dell’ospedale, dal cui libro mastro apprendiamo che questa spesa si ripeteva in alcuni mesi dell’anno talché al cassiere si dava l’ordine del pagamento non solo «perché così sta diterminato dalla nostra Università per publico parlamento» ma anche perché così si «è osservato per il passato».
La «fabrica», però, fu proseguita negli anni  immediatamente successivi, stando alla relazione «ad limina» di mons. Cesare Bellocchio del 1590 dove leggiamo che non lontano dall’«oppido» di Cerreto era iniziata l’edificazione del convento dei frati Cappuccini, la cui ultimazione era prossima e che in tale anno la struttura accoglieva dieci frati.
Successivamente, nel 1613, il convento subì un ulteriore intervento con la costruzione di altre celle, talché fu scelto come sede di noviziato della Provincia Cappuccina di Napoli: noviziato che si protrasse sino al 1619, stando alle relazioni «ad limina» di mons. Gambacorta che scriveva che nel convento vivevano «fratres cum novitiis sexdecim, aliquando plures reperiunt». Poiché dalla relazione del triennio successivo, e cioè del 1622,  non si fa più menzione dei novizi, bisogna ritenere che il noviziato ebbe fine tra il 1619 ed il 1622.
Abbiamo memoria, infine, che nel 1623 Laura Petronso eseguì un lascito testamentario di 10 ducati «pro reparatione del convento di S. Maria de la gratia de padri Cappuccini di Cerreto» e che nel 1642 subì ulteriori ampliamenti. In seguito il convento non subì modifiche sino al 1688, anno in cui il terremoto, distruggendo il «castrum Cerreti», danneggiò gravemente il convento e la chiesa.
Del disastro fanno parola il Magnati, mons. de Bellis nelle tre lettere che diresse alla S. Sede l’11 e il 19 giugno ed il 16 luglio del 1688  e,  indirettamente, il Celentano, il quale scrive che le superstiti monache clarisse «vennero ad abitare nel convento de cappuccini, e questi s’allogarono sotto delle baracche di tavole, permanendovi finché altrove si collocassero le dette religiose».
Successivamente, e cioè forse qualche giorno prima che mons. de Bellis avesse scritto la sua prima lettera alla S. Sede – quella dell’11 giugno -,  i frati abbandonarono Cerreto. Congettura, questa, che trova la sua giustificazione nel fatto che il vescovo nella suddetta lettera, a proposito dei frati cappuccini, scrive che solo un frate «restò notabilmente offeso, e se ne son partiti tutti, mentre il lor convento è come gli altri desolato».
Non sappiamo quanto tempo durò questa assenza; tuttavia è certo che nel dicembre del 1689 lo stesso mons. de Bellis, durante la visita pastorale che eseguì in detto mese, fu ospitato nel convento di s. Maria delle Grazie, sia pure con grave disagio. Circostanza, questa ultima, che indica che il convento era in uno stato precario o forse erano iniziati i lavori di restauro i quali dovettero proseguire sino al 1693, anno in cui si presentava «in parte restauratum», contrariamente a quello dei frati Conventuali che «de novo construitur» e quello delle Clarisse «quod opus iam coeptum est».
Solo nel 1696, infine, la fabbrica fu portata completamente a termine. E’ quanto scriveva nella relazione «ad limina» mons. Gambaro dalla quale apprendiamo che il convento, benché avesse patito a causa del terremoto, non solo era stato restaurato «in loco pristino», ma per di più era stato ingrandito per ospitarvi dodici frati .
Ignoriamo da chi l’intero complesso fu ricostruito o ristrutturato, se dall’Università, cui competeva, o dai Cappuccini i quali, nel 1737, rappresentati dal loro procuratore, Luca Carizza, apportarono un ulteriore ampliamento allo stabile. A tale scopo fu stipulato regolare strumento notarile con il quale il suddetto procuratore incaricava i «Maestri Fabricatori» Crescenzo ed Angelo Ciarleglio, Crescenzo di Crosta e Pietro di Luise di «fare due stanze grandi di fabrica, una inferiore, e l’altra superiore, cioè quella superiore ad uso di Libraria, dalla parte di dietro di detto Monistero», soprastante la «stanza dove presentemente si ritrova  […] la stalla», e ridurre anche questa abitabile «per carlini undeci meno un tornese la canna per fabrica rustica». Il contratto stabiliva, tra gli altri «patti e condizioni», che il tutto doveva essere portato a termine entro il maggio dell’anno successivo.
Dieci anni dopo, poi, nel 1748 «li P. Guardiano e Frati del detto Convento de’ Cappuccini» ordinarono di «fare un Ponte nel vallone nominato della Madonna del Soccorso, e proprio alla punta dell’orto dell’Insigne Collegiata Chiesa di S. Martino, che si tiene censuato da Tommaso Gismondi nella strada chiamata li Tiratori, o l’orto a basso, e che deve tirare al Monticello chiamato li Cani marrani». L’opera, progettata da Antonio Bianco «della Terra di Cusano», doveva essere portata a termine entro due anni e fu affidata dal magnifico Nicola Carizza, procuratore dei frati, a Francesco di Giaso, Venanzio e Nicola de Leonardis, Giacomo Antonio Sgrò e Tommaso Parente, «Maestri fabricatori e Scarpellini della Terra di Guardia». Il costo dell’opera venne stabilito in carlini tre «per la semplice Maestria e, per ogni palmo di taglio di cantoni in bello, grana quattro». I frati avrebbero dovuto sostenere anche le spese inerenti il trasporto dei materiali, lo «scavo delle pedementa, i materiali, ed altro bisognevole per l’uso della fabrica facienda», nonché di fornire l’alloggio ai mastri ed agli operai. Va detto che il ponte in parola è da individuare in quello al quale si perveniva dall’attuale Vico Fabbri e che attraversava il sottostante torrente alquanti metri prima dell’altro che fu costruito, come si dirà, nel 1893 ed ancora oggi esistente. Il vico, infatti, nella toponomastica del Settecento veniva detto, appunto «Vico delli Cappuccini o Vico Speneto che porta nel Convento delli RR. PP. Cappuccini».
Nello stesso anno 1748, infine, la Congregazione dei vescovi e regolari autorizzò la fondazione del convento degli Alcantarini a Faicchio, a seguito della supplica rivolta nell’ormai lontano 1733 dal duca, dal capitolo della Collegiata e dall’Università di detta cittadina. Questa supplica, trasmessa a mons. Baccari, vescovo telesino, fu da questi avallata dopo averla notificata agli altri Religiosi esistenti nella sua diocesi e cioè ai Carmelitani di Faicchio stessa e di San Lorenzello, nonché ai Conventuali ed ai Cappuccini di Cerreto. Questi ultimi però, contrariamente agli altri, si opposero assieme all’Università «credendo e temendo che detta nuova Fondazione possa e debba inferir loro gravissimo pregiudizio».
Nel 1779 il convento subì dei sostanziali rifacimenti ad opera del «fabbricatore della Terra di S. Potito di Piedimonte», Francesco Lanza , a seguito asta pubblica. Il contratto, sul quale riteniamo utile soffermarci perché il convento, sino ad oggi, sostanzialmente è rimasto tale, fu ratificato dal notaio Luca Sanzari alla presenza del governatore di Cerreto, dr. Felice dell’Acqua (circostanza che indica che i lavori furono sostenuti dall’Università di Cerreto), e prevedeva: a) l’abbattimento del chiostro esistente, tranne i pilastri, per portarlo allo stesso livello dei dormitori; b) il rifacimento, «a lamia», del sotto loggiato del chiostro; c) il rivestimento con intonaco di tutta la superficie muraria realizzata, iniziando «dalla porta battitora», e delle «fabriche vecchie»; d) la pavimentazione di tutto il loggiato, la costruzione del parapetto e la relativa intonacatura; e) l’abbattimento della scala «vecchia», il rifacimento delle pareti laterali e la costruzione di una nuova scala, «da fare nel muro dirimpetto la Cisterna situata» nel chiostro, iniziandola dalla camera «dirimpetto la cantina» e terminandola sino al «piano del Dormitorio»; f) l’apertura di una porta, ai piedi della scala, «che conduce per una via segreta al lavatoio dei piatti sito dietro detta scala»; g) la costruzione della volta sulla scala; h) la sistemazione del «lavatoio dei piatti in altro luogo»; i) la «bianchegiatura» di tutte le opere portate a termine. I frati avrebbero dovuto versare all’impresa 80 ducati e fornire tutto il materiale ed il vitto alle maestranze ed ai «discepoli». Va infine aggiunto che all’asta rispose il locale Antonio Tacinella, offrendo 100 ducati e che il Lanza era di Gaeta ma «abitante a S. Potito».
Con tali rifacimenti, pertanto, certamente più razionali per la vita dei frati che affrontavano l’ultimo quarto del XVIII secolo, il convento continuò la sua vita, irradiando la sua luce serafica.        
Probabilmente fu in occasione dei suddetti lavori che furono ordinate le sei lunette, «rilevanti per qualità stilistica», che arricchiscono il refettorio e che raffigurano L'ultima cena, La cena di Emmaus, La samaritana al pozzo, Il miracolo del cieco nato, il «Noli me tangere» e l’Arcangelo Raffaele con Tobiolo, attribuiti dallo Spinosa a Francesco Celebrano. Tesi, però, non condivisa dal prof. Vincenzo Pacelli il quale, con valide argomentazioni, conclude scrivendo che «non sono del Celebrano le sei lunette con scene evangeliche e bibliche che decorano il refettorio del convento francescano di Santa Maria delle Grazie».
Con l’avvento dei Napoleonidi nel Regno di Napoli, e segnatamente con il Murat, il convento della Madonna delle Grazie non fu soppresso, nonostante il decreto del 7 agosto 1809 permettesse la sopravvivenza solo a quei conventi che contavano un numero di professi pari o superiore a dodici unità.
Ciò va imputato al fatto che i funzionari centrali e/o periferici «erano molto più vicino ai religiosi che ai padroni francesi», per cui nel regno sopravvissero il 50% dei conventi esistenti e, tra questi, quello di Cerreto. Per di più va detto che, contrariamente ai confratelli Conventuali, non solo fu risparmiato ma, qualche anno dopo, dovette accogliere tra le sue mura i Religiosi di Sora ed Arpino, secondo quanto apprendiamo da una lettera dell’Intendente di Terra di Lavoro diretta alla curia vescovile di Cerreto.
Tuttavia è da aggiungere che la mancata soppressione del nostro convento non avvenne solo per la «pietas» dei funzionari governativi e/o periferici in quanto il suddetto decreto fece parte di quei provvedimenti di natura economica adottati dal Murat tra cui la confisca dei beni appartenenti ai più ricchi ordini monastici ai quali non appartenevano i Cappuccini bensì i Conventuali. Cosicché, per quanto ci riguarda,  questi ultimi scomparvero dalla storia di Cerreto, mentre i primi restarono.
Diversa fu la situazione quando avvenne  l’unità d’Italia.
E’ noto, infatti, che l’articolo I del regio decreto del 17 febbraio 1861 emanato dal luogotenente generale di Vittorio Emanuele II prescriveva la soppressione di «tutte le Case degli Ordini Monastici di ambo i sessi esistenti nelle Provincie Napoletane» e quindi, tra questi, il nostro convento ed il monastero delle Clarisse. Tuttavia l’art. 8 dello stesso decreto disponeva che i religiosi che risiedevano nei conventi anteriormente all’entrata in vigore della detta legge, potevano «continuare a far vita comune secondo il loro Istituto negli edifici dei Conventi a cui erano aggregati». Al suddetto decreto del 17 febbraio, seguì quello del 13 ottobre con il quale non solo il re escluse dalla soppressione alcuni istituti religiosi, bensì dava la possibilità ai religiosi di «continuare a vivere in comune» purché entro tre mesi avessero fatto «pervenire al Dicastero degli Affari Ecclesiastici in Napoli apposite dichiarazioni da essi firmate comprovanti essere loro intenzione di prevalersi di tale facoltà».
Dal canto suo l’Amministrazione comunale di Cerreto, capeggiata dal sindaco Raffaele Magnati, sin dalla seduta consiliare del 6 marzo 1861, ricalcando la deliberazione concernente il monastero delle Clarisse, deliberò che era opportuno «interessare l’Autorità  del Governo» affinché «tra i Monisteri da esentarsi dalla soppressione sia noverato quello de’ Cappuccini esistente in questo tenimento». Per di più il Consiglio, i cui membri erano detti ancora decurioni, fece richiesta che tale istanza fosse trasmessa anche «a’ Superiori della Provincia» per giustificare le ragioni della richiesta e cioè che il convento distava da Cerreto circa un miglio perché era posto su una collina, «nel pendio della Montagna»; che vi dimoravano cinque sacerdoti ed alcuni terziari francescani i quali somministravano i sacramenti ed assistevano i moribondi di «quei luoghi, non potendo farlo i Sacerdoti di Cerreto per la distanza e poca accessibilità di que’ siti»; che l’annessa chiesa era frequentata da «moltissimi coltivatori» locali; che il convento era solito ricoverare coloro che transitavano «in quei luoghi di notte tempo per recarsi in paesi che sono al di là della Montagna»; che fu «mantenuto nell’epoca de’ francesi» e che, infine, era aspirazione degli Amministratori e dei Cerretesi che «quel Convento non rimanga soppresso». I frati, dal canto loro, in base al suddetto articolo 8 ed al decreto reale del 13 ottobre, analogamente alle monache clarisse, preferirono restare nel convento.
In seguito, il governo presieduto da Bettino Ricasoli, il 7 luglio del 1866, per rimpinguare le casse dello Stato svuotatesi a causa dell’entrata in guerra dell’Italia (20 giugno), requisì i beni delle congregazioni e degli ordini religiosi - ai quali venne tolto ogni riconoscimento giuridico - e li devolse al demanio, dando però facoltà agli enti pubblici locali (art.20) di farne richiesta per adibirli ad usi di utilità pubblica. Il 15 agosto dell’anno successivo, poi, il governo, presieduto da Urbano Rattazzi, soppresse gli enti ecclesiastici ancora esistenti e ne incamerò i beni immobili.
Purtroppo l’Amministrazione comunale di Cerreto, dimentica della deliberazione del 1868 con la quale rifiutò la proposta del Governo di trasferirgli il convento «che era passato al Demanio», ma del quale era proprietario, non lo richiese al demanio dello Stato entro l’anno prescritto dalla legge, per cui nel 1881 il detto Ente ne avanzò la relativa richiesta. Tale richiesta fu respinta in quanto, dichiarava il Consiglio, «sembrava inutile richiedere ciò che già apparteneva al Comune» perché «il Convento non era di proprietà dei monaci, ma da essi tenuto a titolo precario o di fitto», secondo quanto contemplava lo strumento rogato nel 1584, e perciò i frati «furono sempre ritenuti come abitatori di un locale del Municipio».  
Da ciò si deduce che non è esatto sostenere che l’Amministrazione comunale di Cerreto, avvalendosi dell’art. 2 della legge del 1866, fece richiesta del convento al demanio e, per tale ragione, i Cappuccini restarono a Cerreto.
Comunque sia, l’azione degli Amministratori scongiurò la scomparsa dei Cappuccini dal nostro territorio che restarono sino all’Incoronazione della Statua della Vergine che avvenne il 2 luglio 1893.
Secondo il suddetto Gargiulo «venne dappoi un turbamento, causa i partiti, e il Santuario fu dato a governare a preti».
Non conosciamo quale fu il «turbamento» politico cui fa cenno il Gargiulo, né se esso è da attribuire alle lotte politiche tra Giuseppe D’Andrea ed Antonio Venditti - il primo deputato del Parlamento ed il secondo suo avversario politico - ovvero tra i rispettivi sostenitori: Pasquale Mazzacane ed Armando Ungaro. Tuttavia è certo che nell’estate del 1895 dei tre frati che risiedevano nel convento, due vennero trasferiti dal provinciale dell’Ordine ed il terzo, per di più sofferente, restò a Cerreto. Trasferimenti che, da quanto si arguisce dalla monografia del citato Canelli, forse furono di natura disciplinare. Di lì a pochi mesi, infine, con la morte del terzo frate, il convento restò del tutto privo di monaci.
Ma le continue pressioni dell’Autorità ecclesiastica e dell’Amministrazione comunale di Cerreto, rispettivamente rappresentate da mons. Angelo Michele Iannacchino e dall’avv. Armando Ungaro, indussero l’Ordine dei Cappuccini ad acquistare il convento dal Comune di Cerreto, talché i frati, ritornati dopo quattro anni di assenza, ben presto si accinsero a restaurarlo con la chiesa e festeggiare la solennità del 2 luglio, dopo che il Guardiano dell’epoca, P. Serafino da Avellino, «cooperato dalla carità della nobile e pia signora Teresa D’Andrea», fece riattare la strada che conduceva al convento.
Questa strada fu tracciata nel 1893 in occasione della incoronazione della statua della Madonna  e soppiantò l’antica di cui si è detto innanzi creando, all’altezza della “Tinta”, un braccio alla via che, provenendo dalla “vecchia” Cerreto, portava a Telese. Al riguardo occorre aggiungere che in occasione della suddetta solenne circostanza, si attivarono i frati, rappresentati dal guardiano P. Giancrisostomo da Dentecane, e l’Amministrazione comunale diede incarico all’ingegnere Emilio Gagliardi di realizzare l’opera .
Il convento, pertanto, con gli ultimi restauri eseguiti, affrontò il nuovo secolo senza subire ulteriori, sostanziali modifiche, mentre i frati nel 1927 diedero inizio alla pubblicazione bimestrale del periodico La Voce del Santuario di Maria SS. delle Grazie che sostituì La Regina dei Monti, periodico fondato nel 1919 e che terminò nel 1935.
Dobbiamo attendere, infine, il 1961, per vedervi eretto il nuovo noviziato e la scuola materna, opere portate a termine nel 1964. Nel 1962 fu posta la prima pietra della Casa del Pellegrino e, infine, nel 1985, fu eretto il monumento a P. Pio da Pietrelcina.  
Il resto è storia dei nostri giorni.
La Chiesa
La chiesa fu costruita contestualmente al convento dai suddetti fabricatores Scipione di Iannolo e Fabrizio Rimaldo e, come si legge sull’architrave del portale, fu intitolata a S. Maria Soccorritrice dei Miseri, perché Maria intercede con amore materno presso Dio per ottenere grazie per  i miseri mortali che Le si rivolgono fiduciosi.  
Il frate fabbriciere che probabilmente progettò l’intero complesso si attenne ai canoni dell’Ordine in quanto fece sorgere la chiesa a sinistra di chi guarda il convento, con una  prospettiva semplice sulla quale aprì il portale preceduto da un pronao sul quale si affacciava  un finestrone, per terminare con un frontone sul cui vertice pose una campanella.
Dal portale si perveniva nel luogo sacro, dalle modeste dimensioni. Né poteva essere altrimenti se si tiene presente che “le chiesette dei Cappuccini spesso erano costruite sulla misura della santa Casa di Loreto”.  
Sulla parete di fondo sorgeva l’altare ligneo sul quale campeggiava il dipinto di Giovan Berardino Lama eseguito su tavola nel 1592 che, in armonia con la grandezza dell’aula, raffigura la Vergine che porge il seno al Figlio tenuto sul braccio destro e, ai lati, i santi Francesco ed Antonio.
Sulla parete opposta, cioè sul portale, come è ancora oggi, era la cantoria.
Per quanto riguarda la cona del Lama va detto che nell’ Appendice redatta da Eduardo Nappi (inclusa nel volume “Cerreto Sannita: Testimonianze d’arte tra Sette e Ottocento”),  viene riportato l’acconto di 10 ducati che il Banco del Popolo, giornale del 1592, versò il 15 giugno a Simone Tramontano per guarnimenti che ha da fare alla cona del loco di Cerrito di padri cappuccini. Nello stesso giorno ed anno, poi, la stessa banca versò uguale somma ad Aliberto Fiamengo, in conto dell’intagliatura della cona […]ed infine  l’8 luglio a Gio. Berardino Lama, pittore, 14 ducati e 98 grana, in conto della cona che fa per il loco de Cerreto delli reverendi padri cappuccini. Et […] ad Antonio Troiano suo creato per altritanti .
Da quanto sopra, pertanto, si desume che nel 1592 si approntava l’opera pittorica del Lama, nonché i guarnimenti e l’intagliatura della cona, per le cui maestrie furono versati in conto complessivi 49 ducati e 96 grana.
E poiché la eventuale somma pattuita con il Lama non era stata del tutto saldata, il 28 giugno 1600, tramite il Banco dell’Annunciata, furono versati altri 11 ducati destinati a Gio. Bernardo Lama ed altrettanti a Gio. Bernardo Buono .  
Da quest’ultimo mandato di pagamento, quindi, si deduce che i ducati cinquanta destinati ai frati da Ascanio Raetano nel suo testamento rogato nel 1595 […] per la cona che si fa a S. Maria della gratia de Cappuccini de Cerreto, furono insufficienti.
Il luogo sacro, dunque, era costituito da un unico ambiente dove, sulla parete sinistra, si aprivano tre piccole cappelle delle quali la prima -oggi dedicata a s. Francesco- era destinata a sepoltura dei frati . Antistante ad esse un corridoio che immetteva alla scala che portava nella cantoria e,  in fondo,  alla sacrestia.
Tuttavia non va esclusa l’ipotesi che originariamente delle tre cappelle ne esisteva solo una,  la prima , quella dedicata a s. Francesco, e perciò potremmo qualificare la chiesa  un oratorio più solenne e relativamente più grande rispetto a quello della chiesa di S. Maria di Costantinopoli non solo perché servito dai frati che vi stanziavano accanto ma anche perché era destinato ad un pubblico di fedeli di gran lunga più numeroso rispetto all’altro che fu costruito dai confratelli dell’omonima congrega e destinato unicamente a loro. Ambedue, però, strutturalmente, erano improntati alla semplicità ed alla povertà dei cappuccini, né , a nostro avviso, poteva essere altrimenti, se si considera che i frati vennero a Cerreto nel 1584, ad appena 56 anni dalla costituzione della loro famiglia e, perciò, ancora ricchi di una spiritualità  che potremmo definire iniziatica.
L’ipotesi di un’unica cappella può essere giustificata dal fatto  che nessun documento o memoria fa cenno ad altre cappelle o ai santi cui queste erano dedicate. Unica notizia, a questo proposito, ce la fornisce Vincenzo Magnati nella sua opera Notizie Istoriche de’ Terremoti , il quale, a proposito dei danni che subì la chiesa con il terremoto del 1688, scrive che di essa son rimaste […]alcune muraglie[…], e sue Cappelle[…] .
Questa fonte, però, è da prendere in considerazione con cautela non solo perché  scritta nel 1688 - e cioè a 144 anni dalla fondazione della chiesa che, in tale lungo periodo, certamente subì degli interventi e, quindi, la probabile creazione di altre due cappelle contigue alla prima- ma anche perché l’Autore, cerretese e residente per di più a Napoli, nella sua opera riporta notizie su Cerreto poco attendibili, prima tra tutte quella che riguarda il numero degli abitanti prima del terremoto che, secondo quanto scrive, assommavano a  poco meno che otto mila laddove erano esattamente la metà e, quindi, le relative vittime furono 2000 e non  4000 .
Comunque sia, con una o tre cappelle, sostanzialmente la costruzione della chiesa fu portata a termine prima del 1590 anno in cui, come si è detto, il vescovo Bellocchio scriveva che la fabbrica del convento stava per essere ultimata . E’ impensabile ritenere, infatti, che in tale anno i dieci frati menzionati dallo stesso mons. Bellocchio, dimoranti per di più nel convento, erano costretti a servirsi ancora di altro luogo sacro per celebrare gli uffici divini! Da ciò deriva che la costruzione della chiesa ebbe fine nel 1587 (anno indicato dal contratto di fabbrica), mentre il convento subiva le ultime rifiniture per renderlo definitivamente e completamente abitabile ai primi del 1590.
Nel secolo successivo registriamo i soliti legati che la pietas dei Cerretesi destinava alla chiesa, e … un fatto di cronaca nera di cui la chiesa fu spettatrice e, se vogliamo, partecipe: l’uccisione del diacono Francesco Magnati, ex primatibus terrae Cerreti, avvenuta per mano di Giovan Battista Carapella su mandato del feudatario Diomede Carafa .
Avvenne che il Magnati nel pomeriggio del 20 ottobre del 1650, ob suam devotionem,si diresse alla chiesa Sanctae Mariae gratiarum in compagnia del chierico Sisto Mazzacane , di Giovan Lorenzo Mamalella e del servo e, pervenuto nei pressi di una casa costruita sulla via pubblica che conduceva alla chiesa , fu colpito da due colpi di carabina. Mentre l’assassino, non visto dal piccolo gruppo, si dava alla fuga, il diacono, ancora vivo, fu trasportato in dictam  ecclesiam Cappuccinorum dove, dopo aver dettato il testamento, recepta extrema untione post sacramentalem confessionem obiit et in eadem ecclesia Cappuccinorum sepulturae traditus fuit .
Pertanto, stando ai documenti pervenutici,  possiamo asserire che nel Seicento probabilmente non vi fu alcun intervento degno di rilievo che avesse apportato modifiche alla struttura ed all’arredo interno della chiesa.
Bisogna attendere l’ultimo decennio del detto secolo, e cioè  il dopo terremoto (decennio in cui fu portato completamente a termine il restauro o la ricostruzione della chiesa), nonché il secolo successivo, per annoverare qualche donazione degna di rilievo ed opere artistiche che contribuirono ad arricchire ed abbellire il luogo sacro: opere che, per fortuna, in buona parte si sono  trasmesse sino ai nostri giorni.
In ordine cronologico va annoverata la tela dell’altare maggiore che fu eseguita nel 1695, secondo quanto ci trasmette l’ordine di pagamento emesso dal Banco della Pietà di Napoli il 14 gennaio 1696  dove leggiamo che in tale giorno fu estinta la partita di 100 ducati , somma destinata a Geronimo Grisone e consegnata a Stefano Battiloro per tanti ha speso per il coro e cona del luogo di Cerreto de padri cappuccini, (ducati) giratili l’anno passato da Nicola Martinelli con sua fede di credito in Banco di S. Giacomo da spendersi in detto luogo, il quale Nicola al presente è religioso professo della religione de cappuccini col nome di fra Marco da Nola.
Da quanto sopra esposto si deduce: a) che nel 1695 (anno, cioè, precedente al pagamento) Geronimo Grisone eseguì la pala dell’altare maggiore; b) che egli confezionò anche gli stalli del coro (cantoria); c) che il tutto costò 100 ducati, somma sborsata da fra Marco da Nola, al secolo Nicola Martinelli, trasferita a Stefano Battiloro e, da questo, a Geronimo Grisone, del quale  possiamo solo ipotizzare che era un artista napoletano che, per quanto ci riguarda, si occupò di  pittura e scultura lignea, dipingendo la tela, confezionando  la relativa cornice e arredando la cantoria.
La tela, che ancora oggi ammiriamo, raffigura “la Madonna delle Grazie con  San Francesco e Sant’Antonio e le anime purganti”  ed è sovrastata
da quella “di più piccole dimensioni con la figura dell’Eterno” , ambedue racchiuse da due belle e barocche cornici scolpite. La detta tela, pertanto,  prese il posto dell’antica tavola del Lama, certamente danneggiata dal terremoto e che fu posta sull’architrave del portale della chiesa .
Tra le donazioni degne di essere menzionate è quella della statua a mezzo busto di s.Felice di Cantalice che fu donata il 28 novembre del 1712 dalla confraternita di s. Maria di Costantinopoli di Cerreto , previo assenso vescovile , in occasione della canonizzazione  del santo, come leggiamo nel relativo atto notarile, ma anche perché la confraternita fu fondata sotto le regole e statuti di S. Francesco e sotto tali regole oggi si regge. La statua, del costo di 31 ducati, fu portata processionalmente per tutto il paese, partendo dalla chiesa di s. Maria di Costantinopoli sino alla chiesa dei cappuccini. Tenendo conto di quest’ultima circostanza, del confezionamento della tela dell’altare maggiore e soprattutto del fatto che la fabbrica della chiesa era stata portata a termine nell’ultimo decennio del Seicento, sembra strano che la chiesa stessa non fosse stata ancora consacrata. Vi provvide mons. Baccari il 12 marzo del 1725, secondo quanto ci trasmette una breve memoria del Libro magno dell’Archivio storico diocesano dove si legge che il vescovo consegrò la Chiesa de PP. Cappuccini di Cerreto fissando la celebrazione nella prima domenica di giugno .
Un’altra data degna di essere ricordata per la sua importanza è il 1732, anno in cui il dottor Martino Paolino donò alla chiesa dei Cappuccini  l’artistica e meravigliosa statua lignea della Madonna che da Napoli, dove fu scolpita, fu portata a Cerreto .
Il Paolino, cita infatti il documento notarile del 1732 rogato dal notaio Giuseppe del Monte, per sua particolare devozione fece costruire una statua di legname dell’Immagine della gloriosa sempre Vergine Maria delle Grazie con il Bambino Giesù in braccio, con due corone d’argento, una sopra la testa di essa Gran Madre di Dio, e l’altra per il detto Bambino Giesù.
Lungi dal soffermarci sui pregi artistici della scultura, non sembra fuor di luogo considerare che l’ignoto scultore, nel ritrarre la Vergine Maria, fu ispirato da Dio perché il composto atteggiamento materno, il volto divino ispirato ad una sovranità non solo terrena e lo sguardo carezzevole rivolto verso il popolo di Dio, invitano i fedeli a rivolgersi con fiducia a Lei, soccorritrice dei miseri.
Né va trascurato il gesto d’amore del Paolino per Cerreto, terra che diede i natali a lui ed ai suoi avi .
L’atto notarile suddetto, come si nota, non lascia alcun dubbio sia  sulla data del confezionamento della statua, sia sul nome del committente: unico particolare che manca è il nome dello scultore del quale va detto che doveva essere uno dei più valenti della Napoli della prima metà del Settecento e, forse per tale ragione, il Paolino si rivolse a lui.
Tuttavia il vescovo cappuccino B. Gargiulo nella sua Cerreto Serafica scrive che il Paolino fu solo un agente al quale fu affidato l’incarico di commissionare la statua in quanto nel 1730 Cerreto fu funestata da una carestia e pertanto i Cerretesi fecero voto alla Madonna “di erigerle una statua, come si rileva da una pergamena : Deiparae Virgini Sub titulo Gratiarum ob Civitatem Ab Annonae Caritate Servatam Cerretanus populus Ex collata pecunia Tantae Patronae DD. An. Reip. MLCCXXX .
Detta statua però –prosegue il Gargiulo- non venne in Cerreto che nell’anno 1732, scolpita in Napoli da artista sconosciuto, per impegno del Dott. D. Martino Paulino, oriundo di Cerreto, cui il Guardiano dell’epoca P. Geremia da Napoli l’aveva affidato”.
L’assunto del Gargiulo, pertanto, ci fa chiedere da chi fu pagata la scultura: se dal Paolino o dall’Università di Cerreto e, di conseguenza, chi fu l’autore della donazione.
Orbene, volendo prestar fede alla tesi del Gargiulo e, quindi, ritenere certa l’esistenza della pergamena da lui citata ( tesi e documento pergamenaceo che qui abbiamo riportati al fine di non tralasciare alcuna notizia che riguarda la statua), per conciliare le due tesi, bisogna ipotizzare che  i Cerretesi fecero il voto nel 1730 e che in tale epoca il guardiano del convento incaricò il Paolino, che risiedeva a Napoli, di far confezionare la statua che, portata a termine, fu da quest’ultimo pagata all’artista, per poi donarla ai frati.
Se così non fosse stato è impensabile che il Paolino avesse dichiarato il falso nell’atto pubblico dove,  come si è potuto notare, si legge che egli aveva fatto costruire una statua di legname […] per sua particolare devozione .
Che poi lo stesso Paolino si fosse sostituito all’Università nella donazione, non deve destare meraviglia se si considera che alla sua devozione per la Madonna si aggiungeva l’amore per la  terra nativa –dove fondò “un Monte dei maritaggi” - e, in qualità di “avvocato di grido in Napoli” , certamente conosceva molto bene le angustie economiche in cui si dibatteva l’Università sin dal 1723 : angustie che, come è noto, sfociarono nel 1737 nei capi di gravami proposti nel Sacro Regio Consiglio dall’Università che denunziò i “pesi e soprusi” che esercitava il feudatario sui Cerretesi.
Le difficoltà economiche dell’Università, dunque, e la carestia del 1730, furono probabilmente le ragioni che indussero il Paolino ad accollarsi la spesa per l’esecuzione dell’opera, rendendo implicitamente un omaggio ai compaesani.
Pervenuta dunque, nel 1732, la statua a Cerreto, le fu destinata la cappella  centrale , anche se inizialmente, secondo quanto assicura il padre Mariano Parente, fu posta nella prima cappella dove, nella parete di fondo, durante i recenti restauri, è stata rinvenuta una nicchia adeguata alla grandezza della statua stessa con la quale crebbe la devozione alla Madonna, talché abbiamo memoria che nel giugno del 1756, ignoriamo se per la prima volta dopo il 1732, dalla sacra collina francescana, fu portata nella collegiata chiesa di s. Martino dove fu esposta alla venerazione dei fedeli .
In quei giorni, poco più che ventenne, da Napoli venne nella sua terra avita il barone Antonio Carizza , ospite degli zii d’Adona,  presso i quali fu colpito da una crudele e pessima febbre che lo rese in uno tratto destituito da sensi, perduto di forza, senza loquela con una continua inquietitudine, di modo che andava di male in peggio, e sebbene perseverava nel suo travaglio, riacquistò se non tutto, parte della sua mente, e loquela, dentro di cui invocò il nome della sempre Madre di Dio santa Maria delle Grazie sua Avvocata esposta nell’Insigne Collegiata Chiesa di S. Martino di questa Città, che avesseli implorato dal suo unigenito Figlio la salute prima dell’Anima e poscia quella del Corpo, come in realtà, dopo una tal invocazione, riacquistò la totale conoscenza colla sua retta loquela e riposo della sua persona, mercé i meriti della Gloriosa sempre Vergine Maria[…]. Per questa guarigione miracolosa il Carizza, per gratitudine, dispose che i suoi coloni, Bartolomeo ed Angelo Germeri, avessero portato ogni anno ai frati  due tomola di grano .
Nel 1757 la provvidenza divina permise ai frati di corredare le suddette tre cappelle con altari di marmo che furono confezionati dal mastro marmoraro Aniello Cimafonte, napoletano, per complessivi 120 ducati, cioè uno per ducati 60 e l’altri due per ducati 30 l’uno […] per situarli nella chiesa de Padri Cappuccini di Cerreto , a carico dei quali ricadeva il trasporto dei marmi, il materiale per montarli, il vitto ed il viaggio de giovani marmorari .
Poiché dei tre altari solo uno, come si è potuto notare, costava il doppio degli altri perché era più elaborato e confezionato con marmi più pregiati, bisogna convenire che quest’ultimo era destinato alla cappella della Vergine. Né si può pensare che fosse stato destinato all’altare maggiore in quanto questo probabilmente era già stato eseguito in legno o in muratura, in occasione della consacrazione della chiesa. Inoltre, tenendo anche conto che nel 1870 il cerretese Enrico Ciaburri, per devozione, donò alla chiesa l’altare maggiore in marmo policromo  -consacrato poi il 30 maggio 1910 dal canonico Carluigi Di Lella -, è impensabile che questo avesse sostituito quello  marmoreo del Settecento.
In tale contesto è lecito pensare che, con la devozione sempre crescente da parte dei fedeli non solo di Cerreto, si accrebbero le offerte, per cui i frati, fedeli alla povertà dettata da s. Francesco, ritenendo per loro lo stretto necessario, come per il passato, impiegarono il superfluo nell’acquisto di oggetti sacri e di dipinti tra i quali le tele che sovrastano le due porte dell’abside che riproducono la Visitazione di S. Elisabetta e la Presentazione di Maria al tempio , nonché quelle di s. Rosalia in gloria, di s. Filippo ed altre immagini di sante francescane, anche queste, come le prime, attribuite a Francesco Celebrano che dovette eseguirle “nel decennio a partire dal 1773”.
Con la datazione di queste  opere pittoriche, possiamo dire che negli anni successivi la chiesa non subì sostanziali modifiche strutturali  né si arricchì ulteriormente di opere d’arte, se si eccettua il dipinto sotto la volta, in verità poco felice nel contesto della chiesa, eseguito dall’insegnante della locale Scuola d’Arte, Santolo Maffettone, nel 1961 .
D’altro canto il Settecento si chiudeva con una rivoluzione, quella del ’99, seguita, poi, dal decennio francese, dalla restaurazione e, infine, dall’unità d’Italia.
In tanti trambusti politici anche la tranquillità dei nostri frati, come si è detto a proposito del convento, fu scossa: restava loro solo la fede del popolo per la Madonna delle Grazie e la fiducia che essi stessi  ispiravano all’intera popolazione del territorio.
In questi avvenimenti è da ascrivere il voto dei Cerretesi alla Madonna nel settembre del 1837, anno in cui il regno di Napoli fu travagliato dal colera e da una carestia dovuta alla prolungata siccità che arse i campi e distrusse i raccolti. Per questi motivi i Cerretesi, “appena il letale morbo s’insinuò tra essi, non disperarono e , memori dei favori già altre volte ricevuti dalla Vergine, […]vi ricorsero e le promisero, con giuramento, di esserle sempre più devoti e di recarsi il 12 settembre di ogni anno in pellegrinaggio, portando ceri al venerato Santuario” .
In seguito, normalizzatasi alquanto la situazione politica italiana (si fa per dire), il 27 giugno 1891 P. Giancrisostomo da Dentecane, “religioso colto e oratore stimato che allora risiedeva nel convento di Cerreto, predicando la novena della Madonna in preparazione alla festa annuale” , lanciò l’idea di incoronare la statua della Vergine. L’idea, benedetta ed incoraggiata da mons. Luigi Sodo, fu accolta con entusiasmo dal clero, dall’Amministrazione comunale e dal popolo, e si concretizzò ben presto previa approvazione del capitolo vaticano, dopo aver creato una cappella più degna e, come si è detto a proposito del convento, dopo aver tracciato una strada più agevole per  l’occasione.    
La cappella fu realizzata utilizzando l’antica cappella mediana che si ampliò, sia in lunghezza che in larghezza, nel retrostante giardino. In tale modo, pertanto, si ottenne un iniziale ambiente rettangolare destinato ai fedeli ,  seguito da un altro più ampio dove la prima porzione fu destinata anche ai fedeli e la rimanente parte al presbiterio nel quale, ovviamente, fu posto l’altare sovrastato dall’edicola destinata alla statua.
L’opera muraria fu realizzata da Luciano Ciarleglio su progetto dell’ingegnere Emilio Gagliardi che non solo fornì la cappella di cupola, ma la ideò interamente in stile gotico bizantino. Le  pitture dei quattro doppi pilastri angolari, i fregi degli archi, sottostanti la cupola, e del catino absidale, furono eseguiti dal pittore Francesco Barile . Invece gli angeli della cupola, quelli dell’abside con Gesù su trono, i quattro evangelisti ed i quattro medaglioni di santi francescani, furono opera del pittore Umberto Albino di Napoli.
Solo nel 1943, infine, Alfonso Grassi, di Solofra, dipinse i medaglioni di santi francescani, distribuiti sulle quattro facciate dei pilastri angolari .
In armonia, quindi, con quanto sopra descritto, sia l’altare che la edicola,  furono rivestiti con marmi policromi eseguiti a Napoli; il pavimento fu rivestito con lastre di marmo bianche e bardiglio; i finestroni gotici furono arricchiti con vetri colorati, talché il fedele che si recava -e si reca - a pregare, trovava un ambiente altamente spirituale, irradiato dal sorriso della Madonna.
Portati a termine tutti i lavori , la cappella, fresca di stucchi e odorosa di incensi, si apprestò ad accogliere ben presto la Madonna col Bambino, incoronati con corone di oro confezionate a Napoli da Salvatore Guerrasio e fratelli e dal cesellatore Gaetano Musetti .
Il pomeriggio del 23 giugno 1893, la statua fu portata processionalmente a Cerreto dove sostò prima nella chiesa di s. Martino sino al 1° luglio e, quindi, pervenne in cattedrale. Il giorno successivo tra il tripudio, la commozione e la gioia del popolo di Dio , ebbe luogo la solenne incoronazione che fu eseguita dal francescano Rocco Cocchia, arcivescovo di Chieti, a Rever. Nostro Episcopo Sodo libenti animo subdelegatum, comitantibus Ill. et Rev. Dom. Domenico Cocchia Ascoli Apuliae Episcopo et Benedicto M. Della Camera Episcopo Thermopilen Ausiliare (di mons. Sodo).
Analoga cerimonia fu celebrata dopo 25 anni, primo anniversario della suddetta incoronazione, e nel 1932, rispettivamente con i vescovi Giuseppe Signore e Salvatore del Bene. Questo avvenimento fu ricordato con altre pitture eseguite nella cappella dal suddetto Alfonso Grassi, che riprodusse momenti della processione.                                                         
Nel 1921, infine, fu modificata la vecchia, secolare facciata, fatiscente e deturpata dalle intemperie.
L’opera, molto più degna del retrostante luogo sacro e di quanto esso custodiva, fu ideata ed eseguita dal giovane Emilio Mendillo, valente e geniale artista cerretese. Solo più tardi, nel 1928, la facciata fu ulteriormente arricchita, in quanto gli angeli progettati dal Mendillo che avrebbero dovuto fiancheggiare il finestrone (ove mai vi furono posti), furono sostituiti con le statue dei santi Francesco ed Antonio .  
Va annoverato, a proposito della facciata, che nel 1921fu ospite di mons. Giuseppe Signore il nunzio apostolico a Berna Luigi Maglione, ex alunno del seminario telesino, poi cardinale e segretario di stato di Pio XII, il quale volle recarsi alla chiesa delle Grazie per venerarvi la Madonna ed in tale occasione “ammirò la nuova facciata in corso di edificazione” .
Nel 1964, a seguito del breve apostolico di papa Paolo VI del 23 maggio, la Madonna delle Grazie fu proclamata patrona della diocesi, su istanza di  mons. Felice Leonardo il quale, già dal 1° marzo, con l’intesa del Ministro provinciale dei Cappuccini, diede inizio alla Peregrinatio Mariae che toccò tutti i paesi della diocesi.
Va detto, infine, che soprattutto con la presenza a Cerreto di P. Mariano Parente, sia come superiore che come semplice frate, la chiesa, la cappella della Madonna, la redazione del periodico, furono oggetto della sua instancabile operosità. A lui si deve, tra l’altro, il restauro delle pitture della cappella eseguito dalla professoressa Marianna Formichella di Solopaca nel 2006 e, infine, quello della statua stessa che, deturpata gravemente in precedenti restauri, nel 2008 fu riportata al suo primitivo splendore ad opera della professoressa Franca Gambacorta e dell’assistente dottoressa Cristina Rovagnati di Firenze, per ritornare nello stesso anno alla sacra collina cerretese da dove volge il suo sguardo sul popolo di Dio che a Lei ricorre con filiale affetto, salutandola con le parole dell’angelo: Ave Maria.
Renato Pescitelli
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